Sirena – Creatura mitologica, a seconda delle tradizioni metà donna e metà uccello o metà donna e metà pesce; apparecchio che genera un segnale acustico di grande intensità, e il segnale stessodal greco Seirén. La sirena è una delle figure mitologiche che ha il significato simbolico più denso. Ma prima di parlarne, è necessario osservare l’ambiguità insita in questo nome. Nella tradizione greca, le sirene erano creature di natura divina, col corpo di uccello e le teste di donna. Secondo alcuni – ovviamente ci sono versioni diverse – erano figlie di Tersicore, Musa della danza, e di Acheloo, dio marino figlio di Teti (madre, fra gli altri, di Achille) e di Oceano. A quanto pare, in qualche modo si corruppero e inselvatichirono, e presero ad abitare una certa isola vicino a Scilla e Cariddi. Da lì, cantando in maniera supremamente seducente, attiravano i naviganti, facendoli rovinare sugli scogli o facendoli sbarcare e divorandoli. Celebre è l’episodio in cui Ulisse, messo in guardia dalla maga Circe, dovendo passare vicino all’isola delle sirene tura le orecchie del suo equipaggio con tappi di cera, mentre lui si fa legare all’albero della nave per poter saziare la sua curiosità della meraviglia del loro canto, uscendone incolume. Fra l’altro, Omero non descrive le sirene: dava per scontato che chi ascoltava sapesse come fossero. Altri le descrivono, come Apollonio Rodio: nelle sue Argonautiche, parla di come la spedizione degli Argonauti sia passata per il solito isolotto: in questo caso fu Orfeo a neutralizzare la minaccia, suonando con la sua lira una musica assai più bella e seducente del canto delle sirene – scornatissime. Ma tradizione greca a parte, la più comune figura della sirena – suggestione autentica che accomuna gli Assiri ai Vichingi – consiste in una creatura che dalla cintola in su pare una donna, e sotto un pesce. In effetti, nonostante appaia in una grande quantità di tradizioni eterogenee, è dall’immaginario nordico che noi traiamo la comune immagine della sirena: una creatura ambigua, come gli elfi, imprevedibile e affascinante, ora benevola, ora maligna, vera metafora del mare. Notiamo infatti che in inglese ‘sirena’ si dice ‘mermaid’ (nell’antico inglese ‘mere’ è mare, e ‘maid’ è la giovane), e in tedesco, similmente, è Meerjungfrau (giovane donna del mare). Ma c’è un punto d’incontro fra la tradizione nordica e quella greca: la sirena resta il simbolo della seduzione mortale. Quando nel 1819 Charles Cagniard de Latour, accademico francese, ideò un congegno in grado di emettere un suono a una frequenza determinata, lo chiamò sirène: sulla base della sua invenzione, modernamente, chiamiamo ‘sirena’ quegli apparecchi che emettono un segnale acustico preciso e di grande intensità – che come le sirene attraggono ineluttabilmente l’attezione. Che sia la sirena antiaerea udita dai nostri nonni o la sirena di ambulanze e auto della polizia, il nesso fra la tecnologia e la figura mitologica resta strettissimo. Un vero gioiello della nostra lingua.
Streghecanore, micidiali incantatrici marine, le sirene devono essersi intrufolate nel mito provenendo dal folclore. Niente ci leva dalla testa che a inventarle siano stati i marinai. I venti, alleati delle streghe, sospingevano i naviganti verso l’isola insidiosa che esse abitavano. Quando il battello, barca o nave che fosse, si avvicinava all’isola fiorita, le onde improvvisamente assopite da un dio cadevano e le orecchie dei marinai venivano deliziate da un canto dolcissimo, di irresistibile seduzione, che li stordiva per trascinarli alla morte. Circe le descrive a Odisseo, come da una veduta aerea, adagiate su un prato mentre cantano soavemente circondate da mucchi d’ossa umane; per rendere l’effetto più ripugnante, le ossa, benché spolpate, biancheggiano tra resti putridi e brandelli di pelle raggrinzita. Si capisce che Odisseo, ripreso il mare, al momento opportuno esegue alla lettera le istruzioni di Circe: chiude con la cera le orecchie dei compagni e si fa legare mani e piedi all’albero maestro. Il resto lo sapete, ma è bene notare due punti dello scarno episodio. Odisseo non vuole rinunciare alla voce delle sirene; e il loro canto è un discorso rivolto proprio a lui. Se ci ascolti, dicono, non solo godrai il nostro suono di miele, ma verrai a sapere più cose, perché noi conosciamo ciò che accade e accadrà sulla terra. Dunque nella favola omerica le sirene attirano i malcapitati con la promessa di rivelare utili informazioni, per comprendere il presente e regolarsi nell’avvenire: robetta da fattucchiere o arte di dee oracolari? Una cosa è certa: le sirene ingannano e il loro potere si manifesta mediante la bella voce. Funestamente divino, demoniaco, è il loro limpido canto. Delle loro origini, natura, aspetto, dei casi che le riguardano sappiamo poco. In Omero sembrano conservare forti tracce della loro provenienza fiabesca (ma incerti sono i confini originari tra favola e racconto mitico); e parrebbe avessero sembianze femminili, anziché figura di uccello con artigli (ma la natura vampiresca risulta dalla descrizione di Circe e poco importa il loro aspetto). Demoni della morte, le sirene erano bensì, in modo alquanto oscuro e marginale, dee dell’amore al servizio di Persefone, regina di morti. Secondo una tradizione il loro canto mitigava l’amarezza della fine. Questa loro arte le avvicina alle muse ed è significativo che nel racconto mitico esse perdano il confronto e vengano punite: le muse le vincono nella gara di canto e strappano loro le ali per farsene corone. Marginalizzate nel mito, le sirene si esaltano nella favola, dalla quale probabilmente provengono, e nell’allegoria. Rinascono più volte: nell’alto medioevo dove diventano donne con la coda di pesce, in epoca umanistica, nel romanticismo nordico; e sono ancora tra noi, per esempio nel Canto d’amore di J. Alfred Prufrock di Eliot o nella parabola di Kafka “Il silenzio delle sirene” (più micidiale del loro canto). Figure ambigue e popolari, pur sempre oscillando tra mito e favola, le Sirene si sono assicurate, come le Arpie, discredito di brutte e cattive, fama universale di smaglianti (e rovinose?) adescatrici.
Nuova è la ripresa del viaggio. Tornato a Itaca, Odisseo inquieto riparte alla ricerca dell’ignoto oltre le Colonne d’ Ercole. Il suo naufragio è un capolavoro delle sirene: quel giorno che passò loro davanti indenne, legato all’albero maestro, esse col canto gli iniettarono nella mente la misteriosa voluttà di tentare il limite dell’esperienza. Figure del pensiero, ancelle inafferrabili della Sapienza, fors’anche larve del pensiero dei morti, eterne intriganti dell’immaginazione umana.
Passando dall’epoca delle favole mitiche ai tempi moderni, le sirene diventano sempre più simili alle muse; più enigmatiche e rischiose, finiscono per assumere il ruolo che le ormai accademiche dee non sanno più svolgere: attirano gli esploratori di segni, gli artisti, i musici, i poeti. Ispirano le ultime metafore al mondo che naufraga nell’insignificanza. Quando le ascoltiamo parlare tra loro negli intermezzi oggi le sirene ci fanno l’effetto di briose intellettuali alquanto saputelle. Le avviluppa una ironia che oserei definire innocente. Godiamoci la danza insignificante e allora ricordiamoci le parole di Circe a Odisseo: “fatti legare ben stretto all’ albero maestro, se vuoi ascoltare la voce delle sirene e goderne. Ti insegno io, vuol dire Circe, come bloccare il desiderio di autodistruzione, provandolo tuttavia pienamente. Oggi anche gli archetipi sono coinvolti nell’indifferenza che precipita di superficie in superficie. Le sirene raccontano se stesse.
Goditi anche tu la tua sirena, vecchio mio, consiglia l’autore, strizzando l’occhio.
“Indifferente è chi non prova emozioni, chi rimane impassibile a tutto ciò che accade, chi non comprende, felicità ne tristezza. Chi non sa ne amare nè odiare, chi non ha cuore nè anima. Ma esiste una persona che davvero può essere considerata totalmente indifferente? Ci sono persone che si sono costruite una corazza contro i sentimenti troppo elevati e forse per non soffrire cercano di rimanere indifferenti, anche se in realtà dei sentimenti li provano ugualmente, perchè l’indifferenza vera è propria, il vero significato del termine, non è di questo mondo, credo solo nell’apparente indifferenza, ci s’impone di esserlo, non siamo capaci di non provare emozioni, altrimenti non potremmo essere chiamati umani!”
Per stati d’animo in psicologia si fa riferimento a dei tratti emotivi pressoché stabili e ricorrenti frutto del nostro temperamento e delle nostre caratteristiche di personalità.
Gli stati d’animo non sono delle reazioni puntuali e degli stimoli definiti, come le emozioni, ma delle tonalità affettive di base che contraddistinguono l’umore di fondo con cui la persona tende ad approcciarsi al mondo.
Gli stati d’animo sono molto più sfumati delle emozioni e comportano una modesta attivazione psicofisica. Inoltre non si riferiscono a un episodio e stimolo specifico, ma rappresentano, appunto, delle disposizioni affettive prive di una specifica motivazione all’azione.
Il modo di pensare determina il nostro stato d’animo, quindi, come pensiamo sarà anche come ci sentiamo. Non è quello che succede che ci fa sentire meglio o peggio, bensì è l’interpretazione interiore che facciamo degli avvenimenti a decidere se staremo meglio o peggio e questa è frutto di come ci siamo programmati negli anni di crescita cognitiva.
Di fronte a uno stesso evento varie persone reagiscono in modi diversi.
Ad esempio, immaginiamo una persona con una collana e un pendente di grande valore sentimentale perché un regalo molto caro di cui voleva averne il ricordo per sempre.
Un giorno un ladro tira fuori un coltello, dà un pugno lasciando un occhio nero alla persona e le ruba il prezioso ciondolo. Ora analzziamo tre esempi e comportamenti di persone diverse con differenti modi di reagire di fronte a tale situazione.
La persona negativa al 100%
Si concentra solo sugli aspetti negativi, ripete quanto sia orribile che le abbiano rubato una collana dal così alto valore sentimentale ed è dolorante per il pugno nell’occhio.
I suoi pensieri sono negativi al 100%, non vede assolutamente nulla di buono in quello che le è successo e in più pensa che se fosse passata per un’altra strada o se fosse andata in un altro posto non sarebbe successo nulla. Il risultato? Se i suoi pensieri sono negativi al cento per cento, anche le sue emozioni saranno molto negative, provando pena, impotenza e attacchi d’ansia in eccesso.
La persona al 60 % negativa e al 40 % positiva (percentuali orientative)
L’esempio riguarda sempre una persona negativa. È logico che se ci succede qualcosa di brutto pensiamo negativo, ma la differenza con il tipo di persona precedente è che oltre alla negatività c’è una parte tranquillizzante e positiva che equilibra un po’ le emozioni riducendo il malessere.
Questa persona pensa che, sebbene abbia perso qualcosa di così importante e malgrado sia dolorante per il pugno, avrebbe potuto succederle qualcosa di molto peggiore; infatti è ancora in salute e prova del sollievo per questo.
Ha saputo affrontare la situazione in un modo non catastrofico come la prima. Logicamente sta male, ma sarà un’emozione più passeggera rispetto al primo caso.
Tutti ci siamo chiesti almeno una volta come talune persone riescano ad affrontare i molteplici problemi sul loro cammino, ammirandone la forza.
In realtà ciò che queste persone possiedono è la capacità di attutire/assorbire meglio i colpi inflitti dalle avversità della vita. È un modo di vedere le cose da una prospettiva ottimista e speranzosa per il futuro in cui ci si aggrappa alle piccole gioie della vita, ai bisogni fondamentali.
La persona di spirito positivo che si aggrappa alla vita
Questo è il caso di chi possiede uno spirito positivo, che vede sempre il valore della vita come base. In genere ha un 70% di pensieri positivi e solo un 30% di pensieri negativi.
Si sente triste per aver perso la sua collana, prova dolore per via del pugno, ma sente l’allegria di essere viva. Si tratta di una di quelle persone che accettano le cose negative, che credono di aver avuto molta fortuna nel ricevere solo un pugno dal ladro.
È a terra, dolorante, ma sollevata dal fatto di essere ancora viva. Queste persone si dimenticano del lato negativo e si aggrappano alla vita con le unghie e con i denti, pertanto quello che primeggia nella bilancia dei pensieri è la gioia di essere vive, e per questo le loro emozioni saranno migliori rispetto a quelle dei casi precedenti.
Dipende dal modo di pensare che abbiamo se qualcosa ci toccherà in eccesso, moderatamente o per niente.
Tutti gli avvenimenti hanno molte sfumature ed è un bene imparare che le cose non sono o bianche o nere, ma che esistono anche le sfumature di grigio.
Ci sono problemi di fronte ai quali nessuno riuscirà a essere positivo perché a volte queste teorie sono difficili da applicare, però esiste sempre uno spiraglio di luce in ogni fatto negativo, c’è sempre qualcosa che si può aggiustare per sistemare le cose.
Sta tutto o quasi nella nostra mente; siamo noi ad averne il controllo. Cercare sempre il lato tranquillizzante e positivo delle cose aiuta molto. Sebbene non sia affatto semplice né facile, vale la pena impegnarsi a mettetelo in pratica per migliorare le proprie emozioni. Abbiamo di certo il potere di farlo, partendo dalla riflessione seguita dalla perseveranza.